La pesantezza, la necessità e il valore sono tre concetti intimamente legati tra loro: solo ciò che è necessario è pesante, solo ciò che pesa ha valore.
Milan Kundera | L’ insostenibile leggerezza dell’essere
Domenica pomeriggio, mentre ero tutta raggomitolata sul divano, avvolta in almeno due coperte, mi sono vista il docufilm su Totti, “Mi chiamo Francesco Totti“.
No, ora non ho intenzione di parlarvi del docufilm – peraltro, molto bello, infatti ve lo consiglio caldamente – e nemmeno di quanto mi piaccia il calcio da sempre, fin da quando ero una bambina, al punto che mentre le altre mie compagne di classe facevano la raccolta delle figurine di Candy Candy o Lady Oscar, io facevo quella dei calciatori.
No, il fatto è che quel docufilm, mi ha portata altrove con la testa. Mi ha smosso un sacco di cose dentro. Tante emozioni, malinconia, desiderio di riavvolgere il nastro e tornare indietro, agli anni passati e a quella “semplicità” che caratterizzava le nostre vite.
A quando eravamo immersi in un mondo reale, con gli occhi vivi, puntati su cose e persone “reali“, e non sempre e solo sullo schermo di un computer o di un cellulare.
Oggi, poi, con questa pandemia, si sta perdendo ancora di più il senso della vita, è come se ci stessimo sempre più isolando dal contesto circostante. Sempre più chiusi nella nostra bolla, tra le pareti domestiche, anche per lavorare. Contatti umani ridotti all’osso – sempre le stesse facce d’avanti – così come qualsiasi forma di vita sociale e di scambio di idee e opinioni. Perché diciamocelo francamente, battibeccare sui social, non è uno scambio di opinioni. Il più delle volte è una gara a chi ce l’ha più lungo… e scusatemi per l’immagine poco elegante.
No, non è bello tutto questo, perché l’essere umano, senza confronto e contatto con i propri simili, perde forza e anche senso, si smarrisce e si trasforma in un’isola sperduta chissà dove.
La vita è bella perché è vera, perché la puoi toccare, vedere, annusare, perché la puoi condividere – e non mi riferisco al condividerla sui social, naturalmente – e VIVERE, vivere davvero.
E così, domenica, mentre ero sul divano, mi sono ritrovata più volte in lacrime. Certo, ero emozionata per quel che stavo vedendo, ma lo ero anche e soprattutto perché quelle immagini, quel racconto, quel tornare indietro negli anni ha aperto nella mia mente tante, tantissime finestre piene zeppe di ricordi e con loro, un’infinità di riflessioni.
Certo, la vita che mi scorreva davanti era quella di Totti, ma era anche la mia. Il tempo trascorso, tutti questi anni, erano legati a lui, ma anche a me.
Rivedere immagini di repertorio, ritrovarmi proiettata nel passato – che non sapevo bene se mi sembrasse vicino o lontano – mi ha fatto pensare a come un tempo tutto fosse più genuino e mi sono sentita un po’ come mia nonna Maria quando, ogni tanto, si lasciava andare ad esternazioni del tipo che ai suoi tempi, quando era più giovane, si viveva meglio, perché c’era più rispetto tra la gente, più armonia e più generosità e che pur avendo poco o niente, erano più ricchi.
Ricordo che a me quelle esternazioni sembravano assurde, mi chiedevo come si potesse anche solo pensarla una cosa del genere, nella considerazione che aveva vissuto entrambe le guerre… insomma, come si poteva preferire il “nulla” agli agi, alla tecnologia, alla comodità, al poter soddisfare tutte le voglie e nel poter avere, tutto e subito, non solo ciò che è necessario, ma anche (e soprattutto) ciò che non lo è?
Ma domenica, ecco, mi sono ritrovata a fare le stesse riflessioni di mia nonna, mi sono ritrovata a pensare che sì, un tempo si stava meglio. C’era più verità, immediatezza ed entusiasmo. C’erano più qualità umane: amore, rispetto, educazione, pudore. C’era meno alienazione e le famiglie, erano davvero famiglie. C’era più tempo condiviso, più aggregazione e la domenica tutti a casa, insieme, attorno al tavolo. Niente centri commerciali o supermercati aperti a tutte le ore e qualora ti fossi dimenticato di comprare le uova, ciccia, ti arrangiavi o magari trovavi soluzioni alternative, come quella di chiederle in prestito al vicino. C’era calore, molto più calore e presenza, anche nella distanza.
Ci si parlava a telefono, a lungo… voce con voce. Niente tasti, niente emoticon, niente chat.
Vicini o lontani, c’era contatto e se si desiderava scriversi, lo si faceva attraverso lettere o cartoline. Cosa c’è di più poetico del ricevere una lettera da chi ci sta a cuore? Era un modo per avere tra le mani qualcosa dell’altro… qualcosa che aveva toccato l’altro e che gli era appartenuta.
Una lettera era anche il piacere dell’attesa… imparare la pazienza, imparare ad essere pazienti. Cosa che peraltro, torna utile in moltissime sfere della nostra vita.
Non sapevamo cosa significasse essere sempre connessi e quando si stava in compagnia, non c’erano distrazioni continue, notifiche varie e via dicendo.
Avevamo più fantasia anche nell’inventarci i giochi e facevamo della necessità virtù: l’elastico; la campana disegnata sull’asfalto con un gessetto; un due tre stella… si rideva, si scherzava e soprattutto, ci si guardava negli occhi.
Ricordo i pomeriggi interi passati in biblioteca a raccogliere il materiale necessario per sviluppare le ricerche assegnate. Niente internet, niente “copia e incolla”, solo studio, fatica e apprendimento. Amore per i libri, per la scoperta… per il piacere di imparare. La curiosità.
Oggi, anche la cultura si è fatta “liquida”, come se fosse diventata poco importante o marginale. Bambini che diventano “adulti” troppo in fretta e che bruciano le tappe… ragazzine e ragazzini che sognano di diventare influencer e genitori che troppo spesso delegano l’educazione dei propri figli a tablet “tappa bocca”, perché troppo stanchi e alienati alla fine di giornate sfiancanti.
No, non voglio fare come quelli che demonizzano il progresso o la tecnologia, è solo che a mio avviso, le cose ci sono sfuggite di mano. Leggere che un ragazzo ha sposato la sua “bambola gonfiabile”, perché la considera la donna ideale, mi manda in confusione, perché è l’ennesima conferma che ci stiamo sempre più chiudendo in una dimensione individualistica, della serie “basto a me stesso”.
Per carità, stare bene con sé stessi è il primo passo per poter stare bene anche con gli altri, ma forse, e dico forse, ci stiamo chiudendo troppo. Forse, stiamo lasciando troppo spazio a robot, computer e affini. Forse, abbiamo sempre più paura di metterci in gioco, di rischiare e farci del male, se serve. Il rischio, nella vita, insegna, forma, contribuisce ad arricchire il nostro bagaglio di esperienze. È essenziale come il dolore. Serve a crescere. Sembriamo tutti affetti dal delirio di onnipotenza.
Insomma, ciò che vedo non mi piace… non mi piace la realtà di quest’ultimo anno difficile. Non mi piace il modo in cui la gente sembra rassegnata a questo nuovo modo di vivere, come se mascherine, clausura, annessi e connessi fossero ormai cose normali, destinate a durare per sempre.
E allora sì, mi dico che la nonna aveva ragione. Si stava meglio prima, quando questo mondo era più semplice, meno pretenzioso e più “pulito”, in tutti i sensi. Preferivo fare più fatica e avere meno comfort. Preferivo i negozi chiusi la domenica e il casellante, con il suo “buongiorno” e “buonasera”, all’uscita del casello. Preferivo andare in giro per negozi, piuttosto che fare lo shopping on line e preferisco guardare la gente in faccia, piuttosto che attraverso lo schermo di un telefono.
Oggi gira così… un velo di malinconia e al contempo un senso di ribellione che striscia sottopelle, tipico di quando mi sfugge qualcosa… tipico di quando devo necessariamente “subire” qualcosa che proprio non mi va giù.
E ora basta, perché ho davvero scritto tantissimo e non so nemmeno come ho fatto ad arrivare fin qui, visto che ero solo passata per lasciarvi la ricetta dell’arista con le pere che vi avevo promesso nel mio post precedente.
Una ricetta da leccarsi i baffi, tra l’altro, perfetta per i giorni di festa, perché è calda e accogliente. Per accompagnarla al meglio, vi consiglio di preparare un purè di patate e cavolfiore – vi basterà cuocere al vapore patate e cavolfiore in pari quantità, schiacciarli con lo schiacciapatate e lavorare con le fruste sul fuoco con latte, burro, sale e pepe – vedrete, vi piacerà tantissimo.
Vi abbraccio e vi auguro di trascorrete giorni sereni… godetevi i vostri affetti e ridete tanto, perché ridere fa bene <3
M. xx
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Arista di maiale con le pere
Ingredienti
- 1,2 kg di arista (fatevi dare la parte più larga e più ricca di grasso)
- 3 pere abate
- q.b. di miele (il mio era al timo, ma quello di acacia andrà benissimo)
- 2 spicchi d'aglio
- q.b. di senape di Digione
- q.b. di olio evo, sale e pepe
- 200 ml di vino bianco
- 100 ml di acqua calda
- 30 ml di marsala (o altro liquore dalla boccata dolce)
- 1 cucchiaino di zucchero di canna
- 2 foglie di alloro; due rametti di rosmarino, un frutto di anice stellato, 4 o 5 bacche di ginepro
Istruzioni
- Massaggiate la carne con il sale (il mio era affumicato) e spalmatela con due cucchiaini di miele e due cucchiaini di senape. Legatela e aggiungete un rametto di rosmarino.
- Ponete una quantità generosa di olio evo in una casseruola dai bordi alti, fate diventare l'olio molto caldo e sigillate la carne per bene, su ogni lato (per 4/5 minuti per lato), fino a formare una crosticina scura. A questo punto, salate appena, pepate, abbassate la fiamma e aggiungete l'aglio, l'alloro, il rosmarino, l'anice e il ginepro.
- Aggiungete il vino, il marsala, il cucchiaino di zucchero di canna e fate sfumare a fiamma viva per 7/8 minuti.
- Aggiungete l'acqua calda e non appena riprende il bollore, abbassate la fiamma, coprite e fate cuocere per circa un'ora e 15 minuti. Se disponete di un termometro, potete interrompere la cottura quando la carne, al suo interno, avrà raggiunto una temperatura di 65°-70°.
- Qualora sia necessario, durante la cottura aggiungete altra acqua calda (poca per volta), per evitare che l'arrosto si attacchi al fondo.
- Una volta spenta la fiamma, avvolgete la carne in un foglio di alluminio e tenete da parte. Assaggiate il fondo di cottura e aggiustate di sale.
- Sbucciate le pere, privatele del torsolo e tagliatele in 4 parti, conditele con sale, pepe e un po' di miele e un filo d'olio, tuffatele nel fondo di cottura, coprite e fatele cuocere a fiamma bassa. Non devono disfarsi e nemmeno diventare mollicce. Dovrete semplicemente riuscire ad infilzarle con facilità. Una volta cotte, spegnete.
- Affettate l'arrosto e adagiate le fette nella pentola, con le pere. Prima di servire, accendete la fiamma, portate a leggero bollore e servite.
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